Sono passati quasi 2 anni dalla nascita di L.
e, come ogni anno, in queste occasioni mi ritrovo a vivere in una diversa dimensione spazio-temporale
in cui il presente e il passato/il qui e il là, si fondono.
Risento le mie mani intrecciarsi a quelle della donna che mi sta di fronte,
piego la testa per accogliere le sue carezze e i suoi delicati sussurri
che celebrano la mia innata e mammifera saggezza e competenza.
Il mio corpo si distende e si contrae :
non sono mai stata così bene perché vivo nella fiducia e nell’accoglienza
e sono aperta all’incontro.
Partorire è un atto di abbandono fiducioso.
È un evento sacro, sessuale ed intimo.
Un atto di umile evoluzione può essere quello di riportarlo alla sua dimensione naturale.
La tecnologia e il progresso hanno creato
una nuova mentalità di discredito dell’umano-terreno e di celebrazione dell’altisonante sviluppo
(intriso di formalismi, titoli e apparecchiature).
Biologia e avanzamento tecnico non sempre sono sintonizzati.
Dagli anni ’50 la fisionomia del parto è completamente mutata.
Prima di allora, la madre partoriva tra le mura domestiche, circondata ed assistita da altre donne, in un’atmosfera familiare ed intima.
Nel dopoguerra lo scenario è mutato,
conducendo la donna a partorire in un ambiente estraneo, in mezzo ad estranei.
Le levatrici sono diventate parte integrate di una équipe che segue un protocollo.
I vantaggi che le nuove scoperte scientifiche hanno portato (maggiore igiene e controlli e minore mortalità materna-neonatale) sono state amplificate sino alla loro deformazione.
Si è giunti ad un punto in cui le donne sono spesso convinte di dover ringraziare l’ospedalizzazione per la sopravvivenza loro e del bambino, quando in molti di questi casi il rischio in cui sono incappate è stato determinato (in modo silente) dal processo di patologizzazione e snaturamento dell’evento (vuoi con manovre routinarie non necessarie, vuoi con l’inibizione dei meccanismi fisiologici che si crea in assenza di accoglienza e supporto empatico e rispettoso).
Non si tratta di sterili generalizzazioni né in estremismi,
è solo un auspicio al raggiungimento di un armonioso bilanciamento tra progresso e naturalità.
Questo può diventare il momento di recupero della maternità e della nascita di una nuova cultura del maternage,
pronta a riconoscere l’unità psicofisica della diade mamma-bambino e a celebrarla.
Provo un senso di unione e di gratitudine nei confronti di tutte noi donne, per la sacralità del femminino,
per questa trama di storie di vita e di famiglie che si intrecciano e si collocano in un disegno universale.
Sento la forza impetuosa di questo fluire e avverto fiducia.
Perché in fondo è questo di cui ha bisogno la nostra umanità, di fiducia.
Fiducia in sé e nell’altro (sia esso un individuo o un disegno più alto) e accoglienza.
Non sempre il percorso che si presenta è quello che avevamo immaginato, anzi, a volte prende le fattezze delle nostre paure.
Ma siamo qui e possiamo lasciarci andare in questa (gioiosa, lacerante, inaspettata,…) apertura.